Un brillante giornalista guarda un'Italia che sembrava bella ma era solo un Purgatorio. Sempre meglio di quella di oggi.

 

Il coraggio di costruire

 

 

Le nazioni, le famiglie e le squadre di calcio provano nostalgia per il passato prossimo. Hanno l’impressione che, prima, tutto andasse bene. Se non proprio bene, comunque meglio. L’Italia non fa eccezione. Dopo un’estate meteorologicamente incomprensibile e politicamente cattiva, dove la mondanità ha i sorrisi da Photoshop e il tormentone è la battuta di due ragazze sulla spiaggia di Ostia, è normale guardare indietro con rimpianto. Non siamo solo ripetitivi: siamo bloccati. Litighiamo per le stesse cose, nello stesso modo, con le stesse persone. L’Italia non è stata mai perfetta. Ma quasi sempre era un’imperfezione ottimista.

Nell’estate 1960 le Olimpiadi di Roma segnavano la consacrazione di un Paese che ce l’aveva fatta: quindici anni dopo una sconfitta umiliante, l’Italia faceva registrare un aumento del Pil — si tenga saldo, ministro Tremonti — del 8,3%. Mina cantava «Il cielo in una stanza» e quella stanza si poteva affittare: lo stipendio di un operaio era di 47 mila lire al mese e un giorno di pensione sull’Adriatico costava 600 lire. A Roma, quell’estate, si svolsero le Olimpiadi. David Maranis, premio Pulitzer, scrive: «Furono i Giochi che cambiarono il mondo ». Sponsorizzazioni e televisioni, russi e americani, spie e competizioni, doping e rivoluzioni, gli occhiali da sole di Livio Berruti, i piedi nudi di Abebe Bikila e la sfrontatezza di un pugile diciottenne, Cassius Clay, il futuro Mohammed Ali, la prima pop star sportiva della storia. E l’Italia era lì, tramonti romani e gente in festa, teatro di tutto questo.

Non era il paradiso. Era il solito purgatorio: ma le anime, allora, sognavano. Nel 1960 transitarono ben tre governi — Segni 2, Tambroni 1, Fanfani 3 — ma i politici, mentre litigavano, facevano: leggi, case, autostrade. Migrazioni interne, idee nuove, il cardinale Ottaviani che attaccava i socialisti «novelli anticristi». Neppure i drammatici scontri di Genova — centomila manifestanti contro il congresso del Movimento sociale italiano — riuscirono a cambiare l’umore nazionale, raccontato da Gabriele Salvatores nel suo film «1960» attraverso immagini televisive del tempo (sarà fuori concorso il 5 settembre alla Mostra del Cinema di Venezia).

Il buonumore delle nazioni è una cosa seria. Non dipende solo dal fatto di vivere in tempo di pace: questa è una fortuna di cui godiamo da tempo, ma l’apprezza solo chi ha più di settant’anni, e ricorda la guerra in casa. L’umore nazionale non è neppure soltanto una questione di potere d’acquisto. Da cosa dipende, allora? Semplice: dalla sensazione d’essere dentro una storia che va avanti.

Senza questa capacità narrativa, una comunità non vive: sopravvive. Magari si diverte, spende e spande per mascherare incertezza e delusione. Ci sono abitudini italiane che hanno l’aria d’essere tattiche consolatorie. Penso alle ubique allusioni sessuali (pubblicità in testa), non seguite da un’altrettanto strabiliante esuberanza sessuale; all’ossessione per qualsiasi gadget o al fatto che metà dei maschi adulti siano diventati gourmet, gli altri ciclisti e giardinieri (la libido prende strade strane).

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L’Italia del 1960 si sentiva una protagonista in cammino. I genitori faticavano pensando: i nostri figli staranno meglio. Nell’Italia del 2010 sappiamo tutti — padri, madri, figli — che la nuova generazione precarizzata starà peggio, e già ha bisogno di aiuto (per la macchina, per la prima casa). È un ribaltamento innaturale: la nazione che lo accetta è nei guai.

Non serve andare sino a Bari per rendersi conto di cosa avrebbe potuto essere Punta Perotti o in Costiera amalfitana a pensare allo sconcio del Fuenti prima di essere abbattuto.

A Torino sopravvivono orrori architettonici ed esempi di degrado urbanistico da far drizzare i capelli in testa.

Se non vai in ferie  e ti piace gironzolare senza meta per la tua Città tieni a portata di mano il telefonino, fotografa il tuo ecomostro ed inviaci lo scatto: diventerai amico di Pensiero Italia-Progetto Torino.

Lo stadio Filadelfia è un simbolo di Torino su cui la Città non riesce a concentrare gli sforzi necessari per onorarne il passato ed immaginarne il futuro.

I progetti che hanno riguardato la struttura - ad opera non solo della Fondazione Filadelfia presieduta dall’ex Sindaco Novelli - che fu il teatro dei successi della squadra del Torino FC che negli anni ’40 raggiunse risultati sportivi incredibili, hanno prodotto solo polemiche, in parte giustificate in quanto il Comune di Torino aveva pronte le autorizzazioni per far sorgere oltre ad abitazioni ad uso residenziale sul lato prospiciente Via Tunisi, un ipermercato di 15.000 metri quadri.

Grazie non solo ai tifosi ma anche ai torinesi più attenti questo progetto per fortuna naufragò e presero a susseguirsi idee di sviluppo che prevedevano la ricostruzione dell’impianto e la sua destinazione al gioco del calcio.

Come spesso accade l’atteggiamento tipicamente nostrano di “decidere di non decidere” ha confinato nell’angolo delle cose da fare il progetto di recupero dello stadio Filadelfia che rimane a tutt’oggi un rudere pericolante.

Il mitico “Fila” deve essere preservato a futura memoria come un monumento nazionale e Pensiero Italia-Progetto Torino vuole fortemente che l’attenzione dell’amministrazione comunale pensi in tempi rapidi ad un futuro sportivo per una Città che di calcio vive molto e che si attende risposte, anche solo per risolvere il problema del degrado di cui da decenni soffre l’area circostante.

Un concorso di idee sul destino dello stadio Filadelfia stimolerebbe oltre la creatività dei bravi professionisti di cui conta Torino, anche un senso di appartenenza necessario per chi ama la propria Città.

 

Si chiude il centro storico solo se strettamente necessario.

L'Assessorato all'Ambiente alla Regione Piemonte ha legittimamente stabilito che sono previsti si contributi ai Comuni per la realizzazione di piani di restrizione del traffico urbano, ma solo se essi dimostrano che il provvedimento è strettamente necessario.

Inoltre vi è la proposta di consentire la circolazione nei centri storici alle auto a impatto ambientale zero o bassissimo.

Pensiero Italia-Progetto Torino sostiene le politiche ambientali se esse sono attuate senza la limitazione incondizionata dePlla libertà dei cittadini.

 

Una famiglia di amici trasferitasi negli Stati Uniti da qualche anno questa mattina alle ore 12 ha chiesto al citofono della portineria del Convento santuario di Sant'Antonio da Padova a Torino di visitare per pochi minuti la chiesa in cui i genitori si erano uniti in matrimonio. Dal citofono hanno replicato che la chiesa era chiusa e avrebbe riaperto solo nel pomeriggio.La famiglia è quindi partita e non avrà più modo, se non tra qualche anno, di visitare un luogo per loro così caro.
I luoghi di culto non sono uffici pubblici o esercizi commerciali e dovrebbero osservare regole più elastiche.