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Categoria: Torino20
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Come ogni anno Torino si presta ad una rivisitazione delle abitudini alimentari, per cinque giorni. Come apre il tendone fieristico del salone del gusto tutti coloro che sino al giorno prima mangiavano sulle panchine i panini portati da casa o si arrovellavano a trovare il bar col piattino economico o la trattoria dove mangiare con otto euro, scoprono di essere inevitabilmente stregati dall'alimentazione di qualità.

Le trasmissioni radiotelevisive diffondono interviste a pensionati avvinazzati e olezzanti di bagna cauda che si sono creati l'etichetta di presidenti di qualcosa: si parla di fagioli rossi, di consorzi di produttori di barbabietole, di fame, di Africa, di manioca, di OGM, di biodiversità per non parlare del vino e dei numeri dell'esportazione. I tavoloni da mensa aziendale del Lingotto si riempiono quindi di nasoni irretiti da passionevoli emozioni olfattive di vini presentati da produttori di piccolissimi appezzamenti in luoghi che non esistono neanche su google maps. E poi gli oli, i capocolli, il puzzone di Moena, l'irrinunciabile desiderio e la passione per mangiare benissimo cose che si possono vedere solo a Torino una volta all'anno per pochi giorni: lo stregato e floridissimo universo dei piccoli produttori.

Per le strade e sui mezzi pubblici non si sente parlare d'altro se non di assaggi incredibili, di torte berlinesi, di fuyot, di frutta sciroppata e di vino conservato in antichissimi orci pugliesi. Quando tutto finisce, Carlo Petrini torna nelle sue stalle di Pollenzo, i pensionati-presidenti bolliti da ettolitri di vino assaggiati e presentati col microfono in mano tornano a casa e si fanno i complimenti da soli.

Questo patrimonio è effettivamente una grande opportunità per il nostro Paese alla ricerca di una via di uscita dalle secche di una crisi di sistema che appare senza soluzione, ma non si riuscirà mai a concretizzare un vero progetto di valorizzazione del cibo in un Paese dove i negozi di kebab fanno più affari di ristoranti dove si mangerebbe benissimo ma la gente (anche chi potrebbe permetterselo) li diserta perchè oggi è di moda il low-cost e i ricchi si scambiano con eccitazione gli indirizzi delle trattorie dove si mangia con venti euro. Siamo gourmet a tempo determinato, perchè parlare di cibo di qualità nei giorni del salone del gusto è indispensabile come aver in tasca l'ultimo smartphone da esibire alla massa di pecore che ragiona con un unico cervello ammalato, dopodichè va benissimo anche il tramezzino del discount con buona pace dei ristoratori o di chi produce tutto l'anno cibo di qualità ma è costretto a chiudere per mancanza di clienti.